Questo giovedì si riparte con un articolo della famosa scrittrice Chiara Gamberale, che ho letto su Vanity Fair..
In questo racconto si sente la solitudine di una bambina ed il timore di legarsi alle persone, tanto da inventarsi l'esistenza di un gatto immaginario che non potrà mai avere nella vita reale (perché tra l'altro ne è allergica..).
Ne diviene un sostituto ideale per affrontare le proprie paure e per confrontarsi con gli altri: chi "crederà" nell'esistenza di quel gatto potrà avere la sensibilità di mettersi in contatto con quella bambina..
Da questa storia mi chiedo
...quanto spesso Donne Nuove vi private della possibilità di avere un rapporto autentico e che vi renda felice?
"Tutti a me capitano...
anche questa volta quello sbagliato...
cos'ho di così tanto disastroso che poi tutto svanisce così?
ma è sfortuna questa?!; ...."
Sono le voci che vi riempiono di interrogativi vuoti nelle delusioni..
Ma realmente quanta possibilità vi date di sperimentarvi in un rapporto?
Di viverlo sentendo che ve lo potete meritare e permettere..
anzi potete avere anche molto di più di quelle frustrazioni,
grossi rospi da mandar giù e rimpianti che si moltiplicano.
Buona ricerca di "quel gatto", che sia per voi Donne Nuove
"il tempo per sognare, per sperare, per avere paura, per amare"
ed il "dispositivo" ,che come un navigatore, vi indichi quei legami autentici che non incateneranno la vostra spontaneità di Donne.
Barbara
Da
bambina ero allergica a tutto.
Alle graminacee, al latte, al
lievito, alle fragole, al sole.
Se mia madre e mio padre litigavano,
fosse pure per chi doveva portare giù la spazzatura, il dispiacere
che sentivo si trasformava subito in terrore, il terrore in una
vertigine, la vertigine in una specie di nausea e prendevo a
vomitare.
Anche
se qualcosa mi faceva felice: un regalo perfetto che non m’aspettavo,
un tramonto particolarmente fucsia, l’invito alla festa del bambino
del doposcuola con i riccioli e gli occhi biondi. Niente da fare: mi
veniva da battere le mani, da ridere.
Un attimo dopo quella risata
s’ingolfava e diventava un attacco d’asma.
Ma,
soprattutto, ero allergica ai gatti.
Che naturalmente erano la mia
grande passione.
-
Un gatto, voglio un gatto.- Ripetevo di continuo.- Datemi un gatto e
non vi chiederò più niente, mai più.- Promettevo.
Finché la
micia grassa e rossa del portiere partorì: e il mio gatto
arrivò.
Non avevo neanche fatto in tempo a trovargli un nome, che
cominciai a tossire. Forte, più forte. Poi a coprirmi di macchie.
Nella notte i miei genitori mi portarono di corsa al pronto soccorso,
e la mattina il gatto senza nome era scomparso.
La
mia allergia a tutto, invece, restava.
Dalle
elementari passai alle medie. Ogni giorno si aggiungeva qualcosa da
cui dovermi tenere a distanza, perché non mi provocasse reazioni
pazze: la vernice che usavamo durante Educazione Artistica. La
polvere della palestra. Il sorriso di Daniele della I C.
Le
chiacchiere segrete, nel bagno delle femmine, fra Maddalena e Gaia,
che parlavano di baci, di mani sotto alla maglietta. L’odore del
gesso e del cancellino. Quel soffio versato dalle labbra di Gaia
all’orecchio di Maddalena, al banco dietro il mio:- Oggi Daniele
della I C mi ha chiesto se quando usciamo da scuola può
accompagnarmi a casa.
-
Fu così che, in quei giorni, incontrai
Semola. – E’ un gattino randagio, l’ho trovato in una scatola
di scarpe, nel cortile del mio palazzo.- Raccontavo.- L’ho chiamato
Semola, come il protagonista de La spada nella roccia, avete presente
il cartone animato? Il mio gattino è un po’ giallo e un po’
arancione, non si capisce bene. Proprio come i capelli di Semola,
appunto.-
Non parlavo d’altro.
- Vieni al cinema con noi,
sabato pomeriggio?- Mi chiedevano Gaia e Maddalena.
- Non posso,
Semola ha una brutta infezione agli occhi, devo portarlo dal
veterinario.- Rispondevo.
- Tu che sei tanto brava in Italiano…Me
la scriveresti una lettera d’amore per Gaia?
- Mi chiedeva
Daniele.
- Perdonami, ma in questi giorni non ho un istante libero.
Ho iscritto Semola a una gara di bellezza per gatti di strada
organizzata dalla parrocchia. Devo stargli dietro, lucidargli il
pelo, pettinargli i baffi. Cose così.
Semola,
Semola e Semola: mi addormentavo stringendolo a me, gli compravo
palline colorate, gomitoli, era la mia preoccupazione costante, era
la mia gioia.
Peccato che fosse invisibile.
I
miei genitori erano oramai abituati alle mie stranezze: non si
scomponevano più di tanto, quando ogni mattina aprivo il frigo,
prendevo il cartone del latte che io non potevo bere, e ne versavo un
po’ in una ciotola, perché Semola facesse colazione.
Anche per i
miei compagni di classe scoprire la verità, di lì a pochi mesi, non
fu motivo di grande stupore.
Non
ero sicuramente al centro dei loro interessi, anzi, semmai facevo di
tutto per restarne ai margini. Avevano i brufoli, i misteri che
improvvisamente gli esplodevano all’altezza della pancia, le
figurine, le passeggiate da scuola a casa, avevano i baci a cui
pensare.
Figuriamoci che cosa gli importava se un gatto fosse vero o
fosse immaginario.
A
volte mi davano un pezzo della loro merenda:- Tieni, è per Semola.-
O mi proponevano di tenerlo con loro, nel fine settimana.
D’altronde
c’era chi aveva l’insufficienza in Matematica, chi aveva le
orecchie a sventola, chi era figlio unico e chi aveva i genitori
divorziati: io avevo un gatto invisibile. Tutto qui. Qualcuno
a cui però Semola non era affatto indifferente c’era: ed era
Valerio Panetti. Valerio aveva un cromosoma di troppo, era più alto
di tutti noi, di tutti noi più grosso. Urlava quando non c’entrava
niente, all’improvviso, magari durante un compito in classe, si
metteva a cantare la sigla di un cartone animato, se gli girava
prendeva a correre attorno ai banchi, ti rubava una gomma, un
pennarello e poi apriva la porta della classe e via, su e giù per le
scale della scuola. Aveva un’insegnante solo per lui che somigliava
incredibilmente a Lydia Grant, la maestra di danza di Saranno Famosi,
e che ogni tanto s’infilava le mani nei riccioli e piangeva:- Non
ce la faccio più, Valerio. Ti prego. Non ce la faccio più.-
Ma se
tutto, per Valerio, era uno spunto per comportarsi come pareva a lui,
Semola no.
Non lo era. Semola era qualcosa per cui valeva la pena
fermarsi.
Quando era stato chiaro a tutti che quel gatto in realtà
non esisteva, infatti, mi ero sentita finalmente libera di portarlo
in classe con me. Lasciavo lo zaino aperto, perché non soffocasse, e
lo tenevo lì.
A ricreazione gli facevo fare un giretto per i
corridoi. Valerio cominciò presto a seguirci. - Semola! Semola!-
Gridava, con quel suo vocione. E rideva. – Posso accarezzarlo?-
Domandava. – Posso tenerlo in braccio?-. Lydia Grant, con un cenno
della testa, mi pregava di rispondere di sì.
Io sollevavo Semola e
lo passavo dalle mie braccia a quelle di Valerio. Che accarezzava
l’aria. Beato.
Sono
passati trentacinque anni.
Così com’era entrato nella mia vita,
Semola è uscito. Senza fare rumore. Nemmeno ricordo come e quando un
giorno mi sono svegliata e lui non c’era più.
Anche le allergie,
a un certo punto, sono sparite tutte.
Se l’è portate via la
vita, quella vera.
All’improvviso
non c’era più tempo per evitare le fragole, la polvere e il
sole.
Sono arrivati gli amori.
Sono arrivati i dolori.
Sono
arrivate le gioie.
Ho avuto tre figli e due mariti.
Molti
amici.
Sono diventata una scrittrice.
Ho avuto lettori.
Ma
domani è Natale e stasera, al tavolo di questa pizzeria, sono
sola.
-
Vorrei avere il tuo coraggio o comunque la tua incoscienza. Però non
ce l’ho.
A
lasciare la mia famiglia, come hai fatto tu, non ce la faccio.- Mi ha
detto lui, oggi pomeriggio.
– Non
abbiamo più l’età, per fare follie. Sappiamo tutti e due che la
realtà è più forte delle emozioni.Rovinerebbe
comunque tutto, vincerebbe comunque lei…che senso ha combattere? -
Ha aggiunto
.
- Quindi fra noi è finita?
-
No. Ma deve finire.
-
Ha
ragione, mi dico, e ordino un’altra birra.
Guardo la mia immagine
riflessa sul boccale vuoto.
Non
ho più l’età: è evidente.
Esiste
un tempo per sognare, per sperare, per avere paura, per amare.
Poi
tocca alla realtà. E vince su tutto. Rovina.
Quello che eravamo,
quello che avremmo potuto essere, quello che non saremo mai.
Non
rimane più nessuna traccia in noi di tutti quei sogni, di quelle
speranze? No.
Che
senso ha combattere?
Che
senso ha avuto farlo per un altro amore, perché fosse l’ultimo,
perché mi sembrava il primo?
Nessun
senso.
Arriva
l’altra birra.
Alle mie spalle la porta della pizzeria cigola, si
apre, cigola, si chiude.
- C’è un tavolo libero, per due?-
Chiede una voce maschile.
- Certo, accomodatevi.
E?
E di colpo
qualcosa d’enorme rotola ai piedi del mio tavolo.
Ci metto un po’
a realizzare che si tratta di un uomo.
E’ accucciato per terra,
agita le mani per l’aria. Sta masticando una parola, ma non la
capisco. Poi invece sì.
Sta dicendo: Semola.
- Semola. Semola.-
Ripete, commosso e felice, Valerio Panetti.
Gli si avvicina
un
ragazzo gentile, con gli occhi buoni.
- Mi scusi.- Dice.
E prova a
convincere Valerio a rialzarsi.
- Non si preoccupi.- Dico io.- Lo
lasci fare.
Valerio alza lo sguardo, cerca il mio:- Aoh, è rimasto
uguale!-
Vorrebbe sussurrare ma urla, con il suo vocione.
- Il muso
gli s’è tutto imbiancato, questo sì…Ma è sempre Semola. Dài,
non mi graffiare però.
E continua ad accarezzare l’aria:
-
Semola. Oddio! Questo è proprio Semola! -.
Semola.
Oddio.
Quello
è proprio Semola.
Il ragazzo gentile è confuso, non capisce.
-
E’ Semola.- Gli spiego io.
- Semola?
- Semola, sì. E’ un
gatto. Non lo vede?
- …no.
-
Peccato. Mi dispiace per lei.
Mi
accuccio sotto al tavolo, vicino a Valerio.
- Shhh.- Mi fa lui.-
Guarda…Si è addormentato. E’ così bellissimo. No?
- Sì. Sì,
Valerio. E’ così bellissimo.